E’ appena stato pubblicato da Yoga Journal un numero speciale sulla Mindfulness a cui ho avuto l’onore di dare il mio contributo, con un articolo che oggi voglio condividere con tutti voi.
Si intitola “Come ho imparato a respirare – Memorie di un praticante autodidatta inconsapevole”.
Poiché è molto lungo, ho deciso di dividerlo in due puntate; la prossima settimana ci vediamo per la seconda parte.
Buona lettura.
“Il chirurgo bravo” era sempre molto premuroso nei miei confronti e dimostrava un’empatia che andava fortemente in contrasto col ghigno satanico che invece teneva “il primario”.
Questi sembrava divertirsi a vedere la sofferenza mia e dei miei colleghi di stanza e anche il suo vocabolario era spesso molto pittoresco, talvolta troppo: “Mettiamo mano al coltello?” era la domanda che poneva ai suoi colleghi per decidere se era necessario procedere con un intervento.
Al contrario, “il chirurgo bravo” mostrava un atteggiamento di compassione sincera per le situazioni dei pazienti e in particolare, forse, per la mia, per la ragione che proprio lui aveva effettuato l’operazione pochi giorni prima e l’esito povero, per non dire negativo, si sarebbe ripercosso nei mesi a venire.
Era il secondo intervento che subivo a causa della malattia di Crohn ma questa volta, oltre all’urgenza e alla ileostomia che mi aveva lasciato, le prospettive di recupero erano molto lunghe e incerte.
Il mio addome, oltre alla stomia, ospitava anche tre drenaggi, uno dei quali necessitava quotidianamente di una accurata medicazione e di un successivo punto di sutura.
Cosa preferisci?
Il primo giorno, “il chirurgo bravo”, mi parlò con molta sincerità: “Sentirai male. In questa posizione la pelle è molto delicata. Abbiamo due opzioni. La prima: posso farti un’anestesia locale e in questo caso sentirai un forte dolore per la puntura dell’ago, dopo di che non ti accorgerai di nulla. La seconda: ti metto direttamente il punto di sutura, senza anestesia e sentirai lo stesso dolore che ti procurerebbe l’ago. Lascio a te la scelta… Cosa preferisci?”
In quei giorni, volendo accorciare qualsiasi tipo di sofferenza mi si prospettasse, scelsi la seconda opzione. Fu così che provai un dolore breve ma tremendamente acuto, grazie al quale i miei compagni di sventura mi ribattezzarono immediatamente “Rambo”, soprannome che mi sarei risparmiato volentieri.
Poiché questa medicazione avveniva tutte le mattine, dovevo trovare un modo per renderla meno dolorosa possibile.
Naturalmente, durante la sutura del punto, cercavo di restare immobile, trattenendo il respiro; appena conclusa l’operazione riprendevo a respirare affannosamente, con il cervello appannato dal dolore.
Il quarto giorno, mi ricordai che da bambino, quando giocavo a calcio, mi avevano insegnato che per recuperare più rapidamente da un affaticamento o da un colpo subito, dovevo inspirare col naso ed espirare con la bocca, anche abbastanza intensamente.
Ci provai.
Il portafortuna
Dopo aver trattenuto il fiato, iniziai ad inspirare ed espirare in modo pronunciato per un minuto, finché la sensazione di dolore non si fosse placata.
Non potrò mai sapere se fu semplice suggestione o un reale effetto della maggiore ossigenazione, anche se temporanea, ma sembrò funzionare e poiché in quei giorni tutto ciò che sembrava alleviare la sofferenza era accolto con immediato entusiasmo, dal giorno seguente iniziai a respirare.
Dopo qualche giorno, mi domandai: “Ma se funziona dopo, perché non arrivare anche prima un po’ più rilassati?”
L’unico problema era respirare senza attirare troppo l’attenzione; allora inspiravo ed espiravo molto più silenziosamente, appena i medici entravano nella stanza per il giro mattutino.
Inspiravo col naso, espiravo con la bocca. A volte mi posizionavo il lenzuolo sopra il naso per attutire la rumorosità della mia respirazione. Non volevo che altri notassero questa mia mania un po’ bislacca.
Prima che i medici arrivassero al mio letto, potevano passare anche venti minuti. Non avevo altro da fare, restare concentrato sul mio respiro non era un grande problema.
E poi, respirare mi portava fortuna; ormai ne ero convinto.
Un kit di pronto soccorso
Mi sembrava di arrivare alla medicazione più tranquillo, di affrontare meglio quella stilettata nella pancia e, riprendendo a respirare subito dopo, giorno per giorno il dolore appariva più sopportabile.
Pensai molto presto di estendere l’uso di questo ”amuleto” ad ogni momento della mia giornata; ogniqualvolta sentissi una fitta, una contrazione, un dolore grande o piccolo (e tutto ciò era molto frequente), chiudevo gli occhi, mi mettevo una mano sulla pancia e iniziavo a respirare. Naso-bocca, naso-bocca, finché il dolore non si allontanava.
Fino alla prossima volta, che poteva essere cinque secondi, cinque minuti o cinque ore dopo.
Il respiro era diventato il mio kit di pronto soccorso.
to be continued… 🙂
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1 thoughts on “Come (e quando) ho conosciuto il mio respiro”